Una riflessione natalizia su Čajkovskij… e non solo

Giovanna Brogi-Berkoff

Mi hanno invitato al Parco della Musica a Roma al concerto di “Snegurochka” di Piotr Čajkovskij . Ho avuto l’imprudenza di accettare: ero curiosa di sentire quella musica che non conoscevo.

Amo molto Čajkovskij, mi hanno sempre colpito i drammi che ha dovuto affrontare nella vita. E non solo a causa della sua omosessualità, ovviamente condannata e perseguita nella Russia zarista (come lo è oggi), ma anche a causa della sua audacia innovativa e del coraggio di voler portare la musica russa in armonia col mondo occidentale, molto più avanzato.

Sono quindi andata al concerto senza pregiudizi, anzi con ‘pregiudizi favorevoli’.

Ebbene, poche volte ho dovuto ascoltare un’opera che mi ha più irritato. Scritta su un libretto improbabile (da una commedia di Ostrovskij), con un immaginario culto del sole che si addice più a tradizioni antiche egizie o precedenti alle 3 religioni monoteistiche, indulge al peggio del più sdolcinato sentimentalismo russo. Non mancano le stucchevoli e monotone melodie che chiaramente hanno in seguito ispirato i complessi dell’Armata Rossa e il peggio di quella cultura sovietica di cori e balletti che tanto piaceva agli intellettuali di sinistra occidentali e al vasto pubblico.

Come al solito bravi i maestri d’orchestra e i coristi di Santa Cecilia. Scadente il mezzosoprano, poco convincente la voce recitante (inutilmente enfatica), bravissimo il tenore del coro.

Ma mi chiedo: c’era proprio bisogno di mettere in programma questa féerie, certamente tra le opere meno riuscite di Čajkovskij?? Un libretto che gronda imperialismo e maschilismo, un inno perpetuo allo zar ovviamente buono, saggio e portatore di pace e benessere, personaggi privi di qualsiasi consistenza scenica e psicologica. Anche la favola in sé non è solo noiosa, ha qualcosa di perverso.

Il direttore è probabilmente bravo. Giovane rampante fa la sua carriera. E andrebbe tutto bene, se non fosse che forse non è questo il momento opportuno per presentare questo concerto con incidental music. Il nome del direttore, pietroburghese, è accuratamente celato nella forma scritta anglo-sassone, i cantanti sono almeno in parte russi. Il direttore è in tourné permanente, questo anno: ha pensato bene di stare fuori dalla Russia… Ma questo basta a giustificare la scelta di quest’opera da parte dell’Accademia di Santa Cecilia?

Non so chi abbia curato la coreografia dell’opera, ma i frack portati dal direttore e dai maestri d’orchestra evocavano chiaramente (tristemente) la corte dello zar del 1873. Non mi sembra la scelta più felice…

Mi si dirà che Čajkovskij è fuori dal tempo? Che non c’è ragione per non includerlo nei concerti nel 2022?

Sì, sono sostanzialmente d’accordo. Ma non per un’opera che gronda sciovinismo e imperialismo russo tanto da far venire il sospetto che oggi lo spettacolo sia stato finanziato direttamente dal Russkij Mir.

A me viene in mente lo zar Putin, la sua corte, e la tragica realtà che, ahimè, gode del sostegno dichiarato di almeno il 54% dei russi. Una bella maggioranza…

A me vengono in mente le decine di migliaia di soldati ucraini che stanno nelle trincee a difendere la loro terra attaccata dal più orribile mostro politico e militare del pianeta di oggi. Mi vengono in mente le migliaia di morti civili, i bambini costretti per mesi nei sotterranei dell’Ucraina sud-orientale, gli animali abbandonati a morire di fame e ora di freddo, la gente (moltissimi i russofoni!) quotidianamente bombardata e costretta a vivere nella metropolitana a Kharkiv, a Chernihiv semidistrutta, a Sumy, a Melitopol’, a Bakhmut… Mi vengono in mente i musei, le università, le scuole, gli aeroporti, i monumenti storici – distrutti a migliaia perché simboli di un paese libero. Le infrastrutture, gli ospedali, i palazzi distrutti. Ma perché?? I russi non sanno fare di meglio che solo distruggere e uccidere?? Parrebbe di sì, purtroppo. E purtroppo non è la follia di un singolo, né di una “cricca di potere”: è una follia collettiva di molte, moltissime decine di milioni di persone. E non è una follia, ma un piano preparato da due decenni.

Ma mi vengono in mente anche i soldati russi. Informatevi meglio: loro non hanno abiti di protezione dal freddo, se ne hanno alcuni se li sono comprati da soli (gli ucraini li hanno, grazie anche a noi). Migliaia di russi muoiono in questi giorni per ipotermia, bagnati nelle trincee o sui campi, a volte congelati o subito freddati dalle armi ucraine quando escono dal buco. O, nella migliore delle ipotesi, fatti prigionieri e quindi salvati dalla morte per freddo. Questa è la Russia. E non è solo quella di Putin: è la Russia di sempre. Cosa gliene importa ai russi se la gente muore a centinaia di migliaia? O a milioni? Alcuni ricevono l’indennizzo dello zar buono e generoso (altri non lo ricevono: ho sentito con le mie orecchie uno che diceva: “Non ho ricevuto niente, Putin vorrebbe pagarci, però ci sono i chinovniki, i funzionari, che non ci danno i soldi!!” – ancora a questo punto sono i russi!). Certamente alla maggioranza dei russi ancora oggi importa di più la grandezza della Russia imperiale che il proprio benessere.

Nel 1943, a Stalingrado, i russi difficilmente potevano scegliere: l’aggressione della Germania di Hitler in qualche modo ‘giustificava’ quello che i soldati di Stalin hanno dovuto sopportare a Stalingrado (e altrove).

Oggi è un po’ diverso. È la Russia che è l’aggressore e non c’è alcun modo per ‘giustificare’ alcun comportamento, a cominciare dai generali e dai sottufficiali che mandano avanti i coscritti e gli zek reclutati dalle carceri a farsi massacrare per primi o a gelare nelle trincee. La Russia (e la maggioranza dei russi) sono gli aggressori e come tali si comportano. Fino a quando? Non sono molto ottimista. I cambiamenti in Russia richiedono un tale tempo che ci vogliono 2 vite per vederli.

Purtroppo, in certe circostanze, sono costretta a pensare che neppure Čajkovskij si sottrae al giudizio della storia. E proprio non riesco più a capire perché si parli tanto della “grande cultura russa”. Se è “grande” che bisogno c’è di dirlo a ogni passo? La cultura francese, tedesca, italiana, inglese… non hanno bisogno di mettere un aggettivo davanti: sono grandi, e lo sappiamo tutti. Perché dobbiamo continuare a prendere sul serio l’evidente complesso d’inferiorità della “cultura russa”? La grandezza morale e intellettuale si impone da sola, non c’è bisogno di retorica aggettivale per parlarne.

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